Come ci si sente a vivere sempre in bilico? A essere la persona che vorrebbe proteggere chi ama da tutto il male, ma anche che deve spronarlo a partire armato e convinto perché quella che lo aspetta è una guerra? L’ho capito l’altra sera guardando Rocky IV. Sarà stata la trentesima volta che lo vedo, eppure mi emoziona sempre come la prima volta. Da qualche anno mi emoziona ancora di più. La storia la conoscete tutti, ciò che non conoscete è come ci si sente a vederla, sapendo di viverla nella propria vita.
La similitudine è fin troppo scontata: io sono Adriana, ma anche Duke. Teo è sul ring per cercare di mettere a tappeto il suo tumore, un’impresa che sulla carta sembra impossibile: Teo è uno, lui è un esercito, pronto a colpire su più fronti. Come Adriana, lo osservo da fuori e cerco di proteggerlo dal male, anche se qui, il male abita in lui. Come Duke, lo devo convincere a salire sul ring e battersi, perché in gioco c’è la sua vita, ripetendogli che non fa male, anche se è una menzogna, perché è solo motivandolo che lo posso tenere acceso.
Alla fine, Rocky ce la fa, abbattendo un avversario imbattibile, grazie alla tenacia di chi lo ha allenato e alla fiducia incrollabile di chi lo ama. Il problema è che quella è una fiaba dei giorni nostri e i round sono contati e si può arrivare alla fine dove non vi è vincitore né vinto. Ma nella nostra fiaba un vincitore ci sarà, ci dovrà essere. E come dice Rocky: “Per battere me, dovrà riuscire a uccidermi, e per uccidermi dovrà avere il fegato di stare di fronte a me. E per fare questo, dovrà essere pronto a morire anche lui”.
Se muore Teo, dovrà morire anche lui. Per questo, stiamo negoziando a caro prezzo una pacifica convivenza. In cui l’unica cosa da fare è ripetergli che tutto questo dolore non fa male, che deve rimanere in piedi, che deve resistere un altro round. Perché tutta questa sofferenza lo porterà alla vittoria, perché vinceremo noi. Perché se uno di noi se ne deve andare per prima, quello non sarà lui. Come Adriana, come Rocky.

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