Ho gli occhi colmi di lacrime. E non so nemmeno perché. Dicono che capiti quando ci si immedesima nella storia di un altro, al punto tale da finire in empatia, anche se non lo si ha mai conosciuto dal vivo. A me è capitato oggi.
Sfogliando l’ultimo numero di Vanity Fair, mi sono imbattuta nelle pagine che celebravano la breve esistenza di Piermario Morosini, il giovane centrocampista del Livorno, morto a 26 anni sabato scorso su un campo di calcio. Di lui si sapeva poco prima di questa triste vicenda, ma la morte in diretta lo hanno trasformato in una celebrità: di lui ora si sa tutto, vita, morte e miracoli. Materiale di lavoro per le riviste, pane per i talk show. Tutti ora conosciamo le disgrazie che in poco più di dieci anni lo hanno fatto diventare un uomo: la morte dei genitori, il suicidio del fratello disabile e l’occuparsi della sorella, anch’essa disabile. Troppo il dolore per una persona sola. Ci credo che il suo cuore non ha retto. Tutti, dal primo all’ultimo, abbiamo pensato: che vita sfortunata! Che esistenza triste! E sbagliavamo, sbagliavamo di grosso.
Mario era un ragazzo felice. Felice di vivere, felice di poter vedere il sole tramontare ogni sera, felice di poter giocare a pallone, felice di poter occuparsi di sua sorella… Felice. Punto. Sulla sua pagina Twitter non vi erano mai parole di rancore né di rabbia, ma solo di ringraziamento per gli amici, per l’amore, per la vita. Un vecchietto che canticchiava, il cielo sopra la Toscana, gli amici di una vita, una cena con la sua Annina: bastava davvero poco a Mario per ritrovare il sorriso. Faceva progetti, Mario, come tutti i ragazzi della sua età: per il weekend, per le vacanze, per la vita. E sognava il matrimonio. Voleva sposare la sua Annina, voleva rifarsi la famiglia che in parte aveva perso e che aveva conosciuto troppo poco. Un ragazzo normale, con i sogni e i progetti dei ragazzi della sua età. O forse di quelli un pochino più grandi, ma la vita lo aveva fatto crescere in fretta e sapeva che non c’era tempo da perdere.
Un cuore grande, che batteva per le cose semplici e che lo ha tradito proprio nel posto che lui amava di più al mondo. Una vita troppo giovane, ma già arrivata al capolinea, però vissuta appieno, badando alla sostanza e non all’apparenza. Aveva capito che la felicità deriva dalle piccole cose, che “Ci han concesso solo una vita: soddisfatti o no, qua non rimborsano mai”, come cantava il suo amato Ligabue e che “È bello vivere, anche se si sta male”, come dice Jovanotti.
Ho gli occhi colmi di lacrime. Non già perché se n’è andato. Ma perché realizzo ancora una volta quanto siamo piccoli e miseri noi umani: per capire quanto è bella la vita e quanto siamo fortunati, abbiamo sempre bisogno di misurarci con le sfortune di qualcun altro. L’esistenza di Mario, seppur breve, non è stata inutile: mi è servita per ricordarmi che posso essere una persona migliore, se voglio. A partire da ora.
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