Voi ci pensate mai alla fine? Alla vostra, intendo. Niente di astratto, proprio alla morte. Come sarebbe se me ne andassi, cosa lascerei, cosa resterebbe. Io spesso, e ne parlo anche.
Fuor di retorica, vorrei esser deposta nella nuda terra, anche cremata va bene. Niente accrocchi ipocriti né di parole né di persone. Sulla lapide la scritta “Pigra, sincera e stronza”. Niente fiori, ma un cicchetto alla mia.
Quando lo racconto, mi apostrofano con un “Ma cosa pensi!”. Perché no, invece? Quando abbiamo smesso di pensarci?
Un tempo alla morte ci si pensava, se ne parlava, la si venerava, non era la fine della vita, ne era la parte preponderante. C’era chi aveva un dio dedicato, chi la associava al sesso, chi dopo il trapasso festeggiava, chi credeva in un aldilà, chi invece nella dissoluzione dell’anima. Di morte si parlava, anche ai bambini, perché dovevano essere pronti a separarsi dagli affetti molto presto, causa guerre ed epidemie.
Oggi neghiamo la morte. Questa società ci ha spinto a cercare la perfezione, a essere invincibili, inarrestabili, immortali. A fagocitare risultati e traguardi, ma senza chiederci quale sia la meta, e senza capire se queste esperienze ci han lasciato qualcosa. Barattoli lucenti, puliti, ma non luminosi, pieni di niente.
Poi arriva un’epidemia e ci costringe alla morte, in modo barbaro, inatteso, spoglio. Cade il velo dell’apparenza, e cosa rimane? Abbiamo smesso di pensare alla morte perché ci sbatterebbe davanti alla paura più grande di tutte: quella di realizzare di non aver vissuto affatto.
[Now playing: “Take me somewhere nice” – Mogwai]

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