Pensavo che essere una famiglia dipendesse unicamente dal fatto di essere sposati, di avere firmato delle carte che ne attestassero lo status quo. Di poter chiamare marito il partner solo se era scritto ufficialmente da qualche parte. Sorridevo quando sentivo due conviventi dire: a noi non serve altro per sentirci famiglia. Che cretina che ero.
Da qualche tempo – da quando cioè mi sono trasferita a casa di lui, da quando la malattia è ricomparsa, da quando all’ospedale ce lo accompagno io e non più i suoi, da quando dentro dall’oncologa a colloquio ci andiamo in due, da quando dormiamo insieme il più delle notti, da quando a breve avremo una casa tutta nostra, da quando sto anche pensando: “Che bello sarebbe avere un figlio” (poi mi faccio prendere dalle seghe mentali del “chi lo manterrà?” o del “i medici non ci danno garanzie sul suo futuro, come possiamo pensare a un figlio?” o molto banalmente “un figlio? Io? Ma mi piaceranno i bambini?”) – io lo chiamo qualche volta “mio marito”. Pensavo mi facesse effetto, invece mi esce molto naturale. E non mi sento in colpa nel farlo, anzi. Una volta mi ci sarei sentita: educata con dei principi e precetti morali e religiosi molto precisi, pensavo che la mia vita avrebbe seguito le tappe canoniche insegnatemi fin da piccola. Ma la vita se ne fotte delle tappe, dei principi e della morale: ti chiede “Vuoi farlo ora? Te la senti? Perché adesso è il momento”.
In questi giorni sono molto giù di morale, brutte notizie sul lavoro mi hanno fatto pensare che forse era meglio se avessi accettato quel lavoro in banca anni fa. Non mi era mai successo. Il solo pensiero di non riuscire a sostentare i miei bisogni e quelli della famiglia mi fa impazzire. Allora mi ha abbracciato e prendendolo in braccio (è lui quello che pesa meno tra i due), mi fa: “Non ti preoccupare, siamo stati destinati a una vita diversa di quella dei nostri coetanei. Se dovessimo sottostare alle regole e alle tempistiche normali, come potremmo pensare di vivere? Non possiamo pensare troppo al futuro noi due, a noi non è garantito. Dobbiamo imparare a vivere bene nel presente, a essere felici qui e ora. Per chi dobbiamo tenere da parte i soldi? Per un figlio che non sapremo mai se avremo? Per una vecchiaia che non avremo mai? Stiamo pagando la felicità – che agli altri è svenduta e nemmeno se ne accorgono – a carissimo prezzo. Ci deve bastare l’amore, che quello ce n’è, tanto”. Colpo al cuore. Deglutisco. Ha ragione: per cosa mi sto crucciando? Cose che già so, ma i nostri limiti seppur conosciuti, ogni tanto si rifanno labili, come quando una leggera nevicata ‘cancella’ i confini e allora occorre una bella spazzata per ritrovarli. Per ritrovarsi.
Siamo una famiglia perché le rare volte che dormiamo separati, non riusciamo a dormire. Siamo una famiglia perché lui è il posto dove voglio tornare ogni volta che sono lontana. Siamo una famiglia perché ci supportiamo e ci sopportiamo a vicenda. Siamo una famiglia perché ci preoccupiamo l’uno dell’altra e mettiamo i nostri bisogni al pari di quelli altrui. Siamo una famiglia perché in casa c’è calore solo se siamo insieme. Siamo una famiglia perché proviamo a progettare il futuro, seppure con una spada che pende sulla testa, retta da un filo troppo fine. Siamo una famiglia perché ci amiamo. E credo che questo possa bastare.
come e’ belo quello che scrivi, anche io e il mio ragazzo stiamo passando per tanti problemi, ma ci sentiamo famiglia.Ti cpisco.
L’importante è sentirsi qualcosa, la legittimazione degli altri è un di più. Ti auguro il meglio. Continua a leggermi. Ti abbraccio