“Dove cazzo è? Dove cazzo l’ho messa?”. Sapeva di avere una bottiglia da parte per le occasioni buone, ma forse l’aveva già stappata. Perché effettivamente di occasioni belle non se ne vedevano da un pezzo all’orizzonte, e il motivo per cui stava cercando quel Chianti Riserva non era certo una ragione per far festa. Ma ne aveva bisogno. Disperatamente. Non c’era nessun vino in cui annegare l’amarezza. Cazzo.
Salendo le scale, inciampò anche su uno scalino, sbattendo il mento. Era evidente che quella giornata di merda non dovesse avere mai fine. Era per terra, spalmata sulle scale che dalla cantina portavano al suo appartamento e nessuno si sarebbe accorto di lei, dolorante sul pavimento. Nessuna lacrima, però, le rigò il viso, forse perché di lacrime non ne aveva più.
Era rimasta tutto il pomeriggio in quei 32 mq di merda, davanti al cellulare in attesa di notizie dall’ospedale. Fuori imperversava la pandemia, e suo padre aveva pensato bene di tagliarsi un dito nel periodo meno indicato della storia per farsi male. Così ora lui era a farsi curare nel posto da cui tutti cercavano di tenersi il più lontano possibile. Il posto dove però lei avrebbe voluto essere ora, senza potere. Il posto dove era già stata mesi prima, in cui aveva perso tutto.
Cosa si prova a sentirsi impotenti? Cosa si prova a sentirsi sbagliati nel momento in cui vorresti fare la cosa giusta? Cosa si prova a sentirsi inutili? È come quando ci si mette davanti al proprio figlio per proteggerlo dall’onda che sta arrivando: speri che non lo investa, ma semplicemente non puoi evitare che si bagni, solo puoi ammorbidirgli l’impatto e sperare che non si faccia troppo male. Ma di te, cosa resta?
Dlin! Un messaggio su WhatsApp la desta per un attimo dai suoi pensieri. Non è papà, è quel collega che da quando sono in smartworking e da quando lei è tornata single, le scrive più frequentemente. “Come va?”. “Di merda”. “Mi spiace” è tutto ciò che sa scrivere. Se lo fa bastare. Del resto, nemmeno lei vorrebbe di più. Da due solitudini come le loro – lei sola contro il suo volere, lui solo dentro un matrimonio infelice – non sarebbe mai potuto venir fuori niente di buono.
Mette giù il cellulare, torna a fissare il vuoto. Accende Spotify, mette su la sua playlist preferita, quella delle canzoni tristi che però le sanno sempre rialzare il morale. Suo marito la prendeva sempre in giro: “Sei l’unica al mondo che ascolta musica di merda per raddrizzare una giornata di merda”. La sua voce riecheggia nella testa, le scappa un sorriso. Parte “Wait” degli M83. Scende una lacrima, “Merda, son stanca di aspettare”. Ma si sente già meglio. La sua musica d’urto funziona. La sua musica d’urto ha sempre funzionato.
Dlin! È papà. “Sto bene, mi stanno per ricucire, io son negativo, ma qui è l’inferno”. Sospiro di sollievo. Pianto liberatorio. E se l’avessero mai trattenuto? Saperlo star male senza poterlo mai vedere né avvicinare? Le viene da vomitare. Si dirige verso il bagno, ha un conato, ma è solo dolore che deve fuoriuscire. Si abbandona alla sua fragilità, seduta accanto al gabinetto. A fatica, si rialza, deve andare a cambiarsi, papà l’aspetta al pronto soccorso.
Mascherina, autocertificazione, guida come una pazza, fendendo il cuore della città. Alla radio, mandano la sua canzone preferita, non la sentiva da una vita. Alza a tutto volume, per non sentire la disperazione. Ma le lacrime sgorgano lo stesso, perché il dolore sa sovrastare ogni rumore.
Entra in una strada contromano per fare prima: se la devono fermare, che lo facciano per un cazzo di buon motivo. Parcheggia in doppia fila, davanti al pronto soccorso. “Papà, son qui, dove sei?”. Eccolo spuntare sulle sue gambe. Gli corre incontro, lo abbraccia. “Non dovremmo, è pericoloso”. Fanculo il Covid, in quel momento temeva di più il pentirsi poi di non averlo fatto. Lo riporta a casa. Lo consegna a sua madre. Si assicura che siano al sicuro, ora. Chi si assicurerà che lei lo sia?
Rientra in casa. Gira le chiavi nella toppa, lancia le scarpe per aria. Il suo primo pensiero è un bicchiere di vino. Cantina. Niente vino. Scalino. Mento. Ora è lì, dove si era lasciata.
Si rialza per l’ennesima volta, si passa un dito sulle labbra, sanguina. Ma non le importa nemmeno più.
Accende Spotify, la sua playlist di canzoni di merda. Parte “I’m into you” di Chet Faker. Si spoglia, apre l’acqua della doccia, in un attimo è avvolta da una nuvola di vapore, in cui si perde. Entra nel vano, chiude le ante. C’è solo lei, da troppo tempo. “I’ll take you down the other road, to breath in something more”.
L’acqua le accarezza i capezzoli, la sua mano scivola verso il basso. I capelli le coprono il volto. Pensa a cosa le faceva suo marito, pensa a cosa avrebbe potuto farle il suo collega. Ha bisogno di non pensare. Il sangue del suo labbro superiore le cola in bocca. Comincia ad ansimare. Il suo vapore si unisce a quello dell’acqua. Si lascia avvolgere dalla nebbia, fuori e dentro il suo cervello. Ha bisogno che qualcuno la ami. E quel qualcuno può essere solo lei.
L’indomani avrebbe chiesto aiuto per sbrogliare alcuni nodi che la incatenavano, ma ora quella mano dentro di lei le sembrava l’unico modo per non andare a fondo. Si spegne, accasciandosi dentro la doccia. Come il suo piacere, come il suo dolore. Ma intravvedendo una luce. Domani si sarebbe amata meglio.
Francesca Favotto

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