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novembre 25, 2020

Tsunami

  • schegge

“Sei una puttana”. Aveva tardato di appena dieci minuti dalla palestra e mentre scendeva dalla macchina, aveva sentito Martina dirle: “Be’, l’istruttore l’ha notato e ha apprezzato”. Suo marito l’aveva sentita, perché era lì con la finestra aperta al 15 di gennaio a contare i minuti. Non aveva fatto nemmeno in tempo a entrare che l’aveva spinta contro il muro.

“Sei una puttana”. A niente era valso il tentativo di replicare, di dirgli che la palestra stava funzionando, che quel programma la stava aiutando a perdere peso, che ora aveva il culo delle attrici che amava tanto guardarsi di nascosto su PornHub. Per lui era sempre la “cicciona di merda, chiatta come una balena”.

Riuscì a rintanarsi in bagno e a girare la chiave. Lui dall’altra parte urlava come un ossesso. Lei, di qui, si odiava perché tutto ciò che faceva lo faceva per compiacerlo, per tornare a farsi amare come quando erano ragazzini e lui sembrava l’uomo migliore del mondo. Perché non era ancora sua. Dopo aver detto sì, il mostro latente dentro di lui ebbe il sopravvento. Lei non si aveva più, forse non si era mai avuta. Le lacrime le sgorgavano, aveva solo voglia di annegare nella vasca, di mettere le orecchie sotto l’acqua per non sentirlo. Ma lui urlava e urlava e urlava. E lei sapeva che l’unico modo per farlo smettere era aprire e arrendersi.

Indossò la maschera più arrendevole e dispiaciuta che aveva e girò la chiave. “Scusa”. Cosa non si fa per sopravvivere. Lui la trascinò per un braccio in camera da letto, la baciò con violenza ma senza trasporto, la spogliò della tuta, le strappò le mutande e le entrò dentro, senza troppi convenevoli. Senza niente. Il tutto durò cinque minuti, forse nemmeno. Un’eternità. Venne senza che lei se ne accorgesse, e forse meglio così. Non voleva rendersi complice del suo piacere.

La lasciò così, sul letto, inerme, mentre lui andò a farsi la doccia, quando l’unica che aveva diritto a ripulirsi di quello schifo era lei. Ma lei ormai non aveva più diritto a nulla. Si mise il pigiama e chiuse gli occhi, fingendo di addormentarsi, come quegli animali che per sfuggire al predatore si fingono morti. E forse lei un po’ lo era già.

Alba, un nuovo giorno. Lui era già partito, aveva una conferenza a Berlino, lo stimato professore universitario. Avessero saputo i suoi studenti cosa si nascondeva dietro quel girocollo e quegli occhiali da intellettuale. Sarebbe stato via un paio di giorni. Il tempo di respirare.

Lei si preparò e andò al lavoro. Un lavoro che amava, in centro città, ma che suo marito voleva che lasciasse, “Posso pensare io a te”, sembrava amore, era la prigione. Aveva barattato la sua piccola fetta di libertà con un atteggiamento remissivo che non le apparteneva. Cosa non si fa per sopravvivere.

“Ciao, tutto bene?”. “Sì, grazie”. Quel suo collega era sempre carino con lei. Aveva provato a scriverle, ma lei gli aveva chiesto di smettere: se suo marito avesse letto, sarebbero stati guai. Lui aveva capito, ma sul lavoro non poteva fare a meno di guardarla. E di captare i suoi umori. “Vieni a pranzo con me? Ti va?”. Un pranzo, maledizione. È solo un pranzo, che male può fare? “Sì, perché no?”.

Parlarono per un’ora intera. Di tutto. Tranne che del marito. Lui aveva capito tutto, anche senza che lei dicesse una parola. “Stai bene, la palestra fa effetto”. “Perché sei sempre così gentile con me?”. “Perché mi piaci”. Arrossì, ma non era infastidita. Per la prima volta dopo tanto tempo un uomo non apriva bocca per umiliarla.

Per tutto il tragitto verso l’ufficio, non parlarono. Salirono al piano, si salutarono, tornando ognuno alla sua scrivania. Dopo aver riacceso il computer, lei si diresse al bagno, quello in fondo al corridoio, di solito mai frequentato perché più angusto degli altri e soprattutto mai fornito di sapone e carta. Doveva lavarsi la faccia, non era lucida.

Mentre si fissava allo specchio, lui uscì dal bagno degli uomini. Fu questione di un secondo. Lei lo guardò e lo spinse di nuovo dentro. Si baciarono con veemenza, lui le slacciò la camicetta e cominciò a morderle i seni. Poi le alzò la gonna, abbassandole i collant. Scostò le mutandine e le fu dentro. Nemmeno 14 ore prima lì c’era suo marito.

La mattina, venendo in ufficio, le cuffie le avevano sparato nel cervello “Ava adore” degli Smashing Pumpkins. “It’s you that I adore, you’ll always be my whore”. Era una puttana ora forse, ma non le fregava un cazzo. L’aveva scelto lei, lo voleva. Voleva per una volta godere. L’onda del piacere salì come uno tsunami, e la travolse. Erano tutti gli orgasmi che non aveva più avuto, da anni. Da quando non si aveva più. Lui le si spense dentro, appoggiando la testa ai suoi seni. La guardò negli occhi. La baciò dolcemente, senza dire nulla. Lei gli fu grata, l’ennesima gentilezza. Si rivestirono e uscirono uno alla volta, avendo cura di controllare se ci fosse qualcuno. Ma quel bagno in fondo al corridoio non lo sceglieva mai nessuno.

Il pomeriggio passò molle, lei stranamente non aveva sensi di colpa, si sentiva bene. Tornò a casa e per la prima volta si sentiva libera di sorridere, ripensando a quei piccoli momenti di felicità, senza lo sguardo di nessuno addosso a indagare perché fosse felice senza di lui. Si preparò la cena, poi preparò lo zaino con dentro le cose che le sarebbero servite. Stampò i documenti, li imbustò entrambi, avendo cura di passare la lingua sulla colla. Stampò anche i biglietti. Andò a letto stranamente calma. Era risoluta, serena. Aveva già avvisato i suoi, quello sarebbe stato l’ultimo messaggio da quella sim. Dall’indomani avrebbero dovuto chiamarla sull’altro numero. Dormì un sonno senza sogni, come non le capitava da quando era adolescente.

Il giorno dopo si svegliò, fece colazione con calma, si vestì, prese lo zaino, la nuova carta di credito e un po’ di contanti. Mise la busta con la lettera dell’avvocato sul tavolo e accanto un biglietto scritto da lei a mano: “Sarò anche una puttana, ma ciò che conta è che non sarò più tua moglie”.

Poi si chiuse la porta alle spalle. Scese le scale, si avviò verso le poste dove imbucò anche la seconda lettera. Sapeva che avrebbe dovuto lasciare quel posto di lavoro, ma almeno l’aveva scelto lei. Chiamò un taxi, “Linate, grazie”. Scorse sul tabellone la sua destinazione: Bali. Avrebbe avuto davanti molto tempo per crocifiggersi prima, per imparare ad amarsi poi. La playlist le mandava “Nobody’s wife”. La vita stava approvando la sua scelta. Prima o poi l’avrebbe approvata anche lei.

Credits foto: Pexels
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by Francesca Favotto | no comment
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Chi sono

"...Non è Francesca", recita la canzone di Battisti. E invece sì, son proprio io.
Nasco a metà degli anni Ottanta, la settimana in cui i Dire Straits dominavano le classifiche mondiali con il loro successo ‘Money for nothing’, sotto il segno della Bilancia, ascendente Leone. Determinata e tenace, innamorata della vita e del bello, appassionata di musica fino al midollo (grazie ai Dire Straits nel mio trigono), sin da piccola preferisco i temi di italiano alle equazioni di algebra, inclinazione che mi porta a intraprendere studi a carattere umanistico. Linguista per necessità, ma giornalista per passione, ben presto scopro quant’è bello e divertente girare come una trottola in cerca di notizie. La serie tv ‘Sex and the city’ dà il colpo di grazia al mio destino: la vita di Carrie Bradshaw è troppo bella per non provare a realizzarla!

Un’insana passione per lo shopping unita alla curiosità per il fashion biz mi aiutano quindi a ‘masterizzarmi’ in Giornalismo di Moda, titolo che mi apre la strada in un settore pieno di sogni e di amore: quello del matrimonio! Fidanzata da quindici anni, cerco di apprendere più nozioni possibili sull’argomento, applicandole nella vita a due. A un rimpianto preferisco un rimorso, a un muso lungo un sorriso, al bicchiere mezzo vuoto sempre quello mezzo pieno, a una vita senza sogni per paura di non riuscire ad avverarli, ne preferisco una piena di cicatrici e sudore nel tentativo di esaudirli. Sognavo la vita di Carrie… e intanto non mi accorgevo che la mia è pure meglio.

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