Nella vita ci vergogniamo di tante cose. Chi di ciò che pensa, chi di ciò che ha fatto, chi delle proprie idee, chi del proprio corpo. C’è stato un momento della mia vita in cui sono appartenuta a quest’ultima categoria.
Sono arrivata a pesare quasi 90 kg: mi rifugiavo nel cibo perché vedevo Teo deperire, così mangiavo per due perché inconsciamente pensavo di nutrire anche lui. Ero pesante, affaticata, rallentata. Poi qualcosa è scattato: Teo non migliorava, io intanto morivo.
E allora ho deciso di fare qualcosa per me. Ho preso coscienza di essere troppo e ho capito che amarmi significava avere cura di me e del mio tempio. Oggi non sono una silfide, ma riesco a guardarmi allo specchio senza vergognarmi. E riesco anche a mostrarmi senza pensare che possa apparire ributtante.
Il nero lo indosso solo quando voglio sentirmi seducente e non più per mascherare. I tubini non mi sembrano più così sbagliati addosso a me. La scollatura è bandiera della mia femminilità, e non della mia esuberanza fisica. Le mie cosce parlano della mia forza. I miei polpacci grossi mi ricordano della fatica di scalare qualsiasi vetta. Il mio viso allo specchio racconta di una donna che ha amato troppo, e amare non è sbagliato mai.
Così oggi mi sono celebrata, ho messo in loop la mia canzone preferita e mi sono liberata. Mi sono sfogata, ho sudato, ho ballato come se nessuno mi stesse guardando. Ho pianto, perché il ballo è catartico, ricongiunge alla parte primordiale di sé. Poi mi sono riguardata, e mi sono perdonata per tutte per le volte che mi sono crocifissa senza motivo. Voglio continuare a ballare così, per sempre. Senza vergogna.
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