Quello che ci frega è l’aspettativa. Nella vita, dico. E anche nei rapporti. Ci incontriamo, ci annusiamo, ci intendiamo, ci innamoriamo, e investiamo una grossa parte di noi, convinti di essere ricambiati alla pari. E invece. “Quello che volevo come sempre non c’è, solo un po’ d’amore che diventa polvere…”, cantava qualche anno fa il buon Cremonini. E come dargli torto, anche se qui sembra che quel ‘come sempre’ lasci intendere a un’abitudine. E comunque, se ci ha scritto su una canzone, allora vuol dire che non ti ci abitui mai.
È l’aspettativa che ci frega. Quell’aspettare ricolmo di speranza, quell’andare avanti convinti di qualcosa che forse è solo nella nostra testa, quel coraggio che ci prende di fare la cosa giusta, sperando che ad azione corrisponda un’azione uguale. Ma è scritto nella dinamica che può esistere anche la contraria, solo che tendiamo a non prenderla mai in considerazione. Strani esseri siamo noi umani: conosciamo tutte le possibili conseguenze, ma siamo propensi a scegliere sempre l’opzione che ci fa più comodo, quella che ci dona una luce da seguire. Salvo poi cascare nel buio, facendo fatica a riemergerne. Sì, perché la buca ce la scaviamo noi con le nostre stesse mani, adducendo agli altri cose che loro non hanno mai detto di voler fare o promesse che non hanno mai detto di saper mantenere. Eppure ci piace credere che sia così.
Mandiamo un messaggio, conoscendo già la risposta, ma aspettandocene una diversa; attendiamo l’estate, confidando in giornate piene di sole e caldo, quando i meteorologi ci avevano già avvertito che sarebbe stata una stagione piovosa e accidentata; ci aspettiamo il sostegno di quell’amica in un momento di particolare difficoltà, in cui dovresti ricevere senza chiedere o maggiore considerazione per quello che credevi ci fosse tra di voi, ma lo credevi, appunto.
E poi subentra la delusione, che se lasciata macerare, allontana, divide, diventa indifferenza. Che hai voglia a giustificare e a spiegare e a parlare, l’unico modo per scacciarla sarebbero i fatti. Ché non c’è niente di peggio che sentirti dire: “Ma era tutto nella tua testa, io non ho mai detto che…”. E allora che si stava insieme a fare?
È l’aspettativa che ci frega. Perché ci fa sentire inadeguati, mai contenti, pretenziosi, saccenti, sedicenti. Ma poi a conti fatti forse è l’altro che era troppo poco per noi e non noi che ci aspettavamo troppo da lui. Dicono che un buon metodo per superare la cosa è quello di ridimensionare la delusione: ma a quel punto si rende necessario ridimensionare anche l’aspettativa, e inevitabilmente il rapporto.
Credo, alla fine, che l’unico modo per andare avanti sia quello di valutare quello che davamo noi: se pretendevamo molto, senza dare molto in cambio, allora è anche colpa nostra e c’è margine per migliorare, da soli e insieme; ma se ci aspettavamo molto, avendo dato molto o tutto in cambio, e questo molto non è arrivato, allora è inutile continuare in un rapporto a senso unico. L’unica è tornare a investire: sì, ma su noi stessi, per essere pronti a ricevere chi ci apprezzerà per quello che siamo, senza approfittarsene. Senza guardare indietro mai. Per non far sì che, come cantava Niccolò Fabi, “pensando a quello che perdevo, non ebbi mai quello che volevo”.
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