Hibakujumoku. In giapponese son quattro ideogrammi che stanno a significare “albero esposto a radiazione nucleare”.
Così infatti sono stati rinominate quelle piante che sono sopravvissute alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki: un’esplosione di calore pari a 40 volte quello del sole, castelli, case, cose rase al suolo, annullate, come se non fossero mai esistite. Ma loro no.
Danneggiate, azzoppate, sconquassate, scarificate, dilaniate, erose. Ma non distrutte. Ancora lì, a testimoniare che la vita c’era, prima del giorno che azzerò la Storia. La primavera seguente rigermogliarono dalle radici e dal tronco.
Hiroshima e Nagasaki mi mancano: quando siam stati in Giappone, Teo non è voluto andarci. “Troppo lontane da raggiungere”, in realtà credo che sentisse troppo il dolore di cui quei posti sono intrisi.
Quando ci ritornerò, ci andrò, e cercherò questi alberi. E starò in loro compagnia, li contemplerò, li ammirerò, li abbraccerò. E vorrò farmi una foto con uno di loro.
Perché anch’io mi sento un po’ hibakujumoku: Hiroshima è stata sganciata, ora sto aspettando Nagasaki. Ma sono ancora qua. E sento che in primavera germoglierò di nuovo.
Perché se si sopravvive a una tale devastazione, non ha senso non ricominciare a vivere.
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