Ore 9.40. Prima di uscire stamattina, inizio il nuovo libro che mi sono regalata. Arrivo a pagina 13, devo chiuderlo di botto. Ho un dolore all’imbocco dello stomaco. Forte. Mi viene quasi da vomitare. Porcatroia. Parla a me, parla di me. Quelle 86 righe sono un pugnale nel cuore. Comincio a piangere, non riesco a smettere. Avrei potuto scriverle io.
È esattamente come mi sento ora, quello che sto vivendo. E che non so come spiegare. Non so se poi per il protagonista ci sia spazio ancora per l’amore. Non son riuscita a proseguire.
Sono uscita di casa con un senso di inquietudine, di malessere che mi ha accompagnato per gran parte della giornata. È stata una giornata perfetta, poi. Piena di risate, di felicità, di piccole cose.
Ore 21.40. Sono sul letto, occhi vitrei sul soffitto. Dal salotto canta Calcutta. Ritorna il malessere. Ripenso a quelle 86 cazzo di righe. Che poi – fanculo – me l’hai consigliato tu. E io a leggere tra le righe. Finché non arrivano quelle 86 righe. Che sono solo mie. Ridicola che sono. Devo smetterla di caricare di cuore tutta la mia vita. E vivere senza senso.
Ricomincio a piangere. “Ma te la immagini una vita senza di me, mi sa che immagini una vita senza di me”. Questa è la differenza, ora: non c’è più nessuno a sentire la mia mancanza, dovessi mancare.
“Quando non avrò più l’età, diventerò un albero, per metter le radici nelle tue radici, o per morire gridandolo”. Comincio a spogliarmi, allora, ché è inverno. Perché arrivi poi la primavera, sì, ma con i tempi suoi.
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