Sono qui sul divano sola, fisso il vuoto, inebetita, anestetizzata. Non sento più nulla. L’altra sera guardavo le scene più crude di “Ratched” e non provavo nulla, né paura né ribrezzo. Ho chiesto alla mia migliore amica se fossi diventata insensibile. Insensibile no, stanca forse.
Sembro forte, no, lo sono. Ma mi sono rotta il cazzo. E adesso che vorrei solo essere fragile e piangere e urlare, il dolore non mi scende dagli occhi. Perché non me lo posso permettere.
Perché non ho nessuno qui al mio fianco che mi può sorreggere se mai avessi un crollo psicologico, se mai dovessi svenire, se mai dovessi vomitare. Perché chi mi ama potrebbe venire qui al mio fianco solo per comprovate esigenze, portando alcool entro le 18 e andandosene alle 22.59. Però il mio bisogno di essere fragile non è una comprovata esigenza, no.
E devo mandare avanti la casa e pagare le bollette, ma non posso uscire di casa se non strettamente necessario. Non mi posso prendere il Covid-19, ma l’esaurimento nervoso con stati d’ansia annessi, quelli sì.
Son rimasta in piedi dopo 14 round di cancro, sto cercando di superare la morte di Teo, il fatto di dovermi rimettere in gioco a 35 anni senza averlo davvero mai voluto.
Ho rispettato tutte le regole, tutte, per potermi permettere il lusso di svegliarmi ogni mattina, vivendo per una piccola gioia, come il rimettermi a studiare o l’andare a pranzo con una collega o il vedere un’amica la sera, per scambiare quattro chiacchiere e fingere che questa nuova vita mi vada bene.
Ma no, niente, forse han ragione quelli che dicono che la felicità non è di questo mondo.
Io domani mi sveglierò e cercherò ancora una volta una ragione per vivere, sebbene mi sia stato tolto quasi tutto; mi chiedete ancora una volta responsabilità e l’avrete, ma cazzo, voi mettetevi una mano sulla coscienza e chiedetevi se questo mondo in cui una potrebbe morire da sola, senza che nessuno se ne accorga, è davvero il miglior mondo che potevate ottenere per tutti noi.
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