A te che mi hai salvato.
Piangevo. Stamattina sul treno piangevo, come una scema. Sul Vanity Fair di qualche mese fa (dovete sapere che ho arretrati di due mesi!) leggevo l’intervista fatta a Andrea, marito di Anna Lisa Russo, la ragazza scomparsa quasi un anno fa, sconfitta da un cancro. Diventata famosa suo malgrado, poiché teneva un blog dove raccontava la sua vicenda, le sue paure, i suoi sorrisi, la sua voglia di vivere, qui il marito Andrea (che l’ha voluta sposare un mese prima della morte) racconta dei loro progetti: “Una casa nel bosco, con le api per fare il miele e due capre, due asinelli, due ochette. Tutto due, perché diceva che nessuno doveva stare mai solo”.
E allora piangevo. Piangevo, perché ricordavo di quella volta che successe a me, a noi. Solo con un epilogo, per fortuna, diverso. Che mi ha, ci ha reso diversi. E più forti.
Avevo 21 anni. 20 e mezzo per la precisione. Lui 23. Ci stavamo per lasciare. Così abbiamo deciso di sposarci. O meglio, qualcun altro lo ha deciso per noi. Niente figli indesiderati di mezzo, né decisioni parentali, ma il destino. O Dio.
Era giugno, il giorno in cui l’estate ha inizio. Faceva caldo, molto. Io ero contenta, un po’ per il sole, un po’ per l’esame di tedesco andato benissimo la mattina stessa (30 e lode, mica bau bau micio micio!), un po’ perché quel pomeriggio c’era la partita dell’Italia e me la volevo godere insieme a lui, il mio ragazzo. Le cose ultimamente non andavano bene tra noi, litigi su litigi, per ogni piccolezza, ma quel giorno volevo fargli capire che a lui ci tenevo e che ero disposta anche a sorbirmi una partita di calcio per lui. E con lui. Arrivai a casa sua, saltellando felice come una Pasqua, nemmeno fossi Heidi. Mi avvicinai e… Non era lo stesso di sempre. Cupo in volto, mi freddò: “Ho un tumore. All’intestino. È grave. Dopodomani mi operano”. Vi giuro che una pallottola in pieno petto sarebbe stata molto meno dolorosa: il sangue non sarebbe arrivato al cervello e non avrei avuto il tempo di capire, elaborare. In questi casi, invece, purtroppo le facoltà per capire la situazione ce le hai, rimangono intatte e una volta che elabori, la paura ti frega. Passai i primi cinque secondi inebetita, senza parole, il sangue non fluiva, le lacrime non sgorgavano. Già, le lacrime… Gran bell’espediente per esorcizzare le nostre paure, le nostre emozioni, capaci di uscire a fiumi quando guardiamo un film, ma nella realtà, ste bastarde, non collaborano quasi mai. In quel momento, il cellulare: Alice. Non so se il destino aveva in programma che proprio lei mi dovesse chiamare in quell’istante, ma di fatto fu la prima persona che sentii dopo la notizia. Era in Belgio per uno stage. Era felice. E io fui una stronza. Le rovinai un tranquillo pomeriggio di giugno. Neanche il tempo di salutarmi: “Aly, Teo ha un tumore”. Piangevo, finalmente. Silenzio. Fra, ma che cosa vuoi che ti dica? “Mi dispiace. Se hai bisogno, chiamami”. Riattaccai. Grazie Aly, che ci sei stata, tuo malgrado. La sera stessa chiamai Ale, la mia migliore amica, distrutta. Lei corse, letteralmente. In dieci minuti si materializzò sotto casa mia. E mi stette accanto, mi fece sfogare, mi promise: “Ci sarò!” e lo mantenne. Sempre e per sempre. Esattamente tre giorni dopo eravamo a Milano, io e Ale. Da sola non ce l’avrei mai potuta fare. Teo era sotto i ferri. Dicevano che il primario che lo stava operando era uno dei migliori d’Italia, dicevano. Mi fidai, non avevo scelta. Ore interminabili, passate in una spoglia sala d’attesa. Qualche giornale a tenerci compagnia, Ale invece mi teneva la mano. Su e giù per le scale… Una, due, tre ore… Cazzo, tempo, ti decidi a passare? Com’è che quando fa comodo a te passi così velocemente e quando ne abbiamo maggiormente bisogno ti fai gli affari tuoi? Sembra che ci vuoi costringere a rivedere la nostra vita, a rifare i nostri programmi, a metterci davanti ad uno specchio per farci fare quel maledetto esame di coscienza che da troppo tempo rimandiamo. Così fu, l’ebbe vinta lui. Fu un tempo interminabile in cui premetti su ‘Rewind’ e rividi tutta la mia vita: 21 anni, una bella famiglia, brava a scuola, simpatica, un bel ragazzo, che però non seppi proteggere, che ora stavo per perdere, che non ero stata capace di tenere accanto, che avevo sfiancato con tutti i miei capricci. Quattro ore: ecco quanto durò la mia permanenza nel limbo dei dannati, in bilico tra la vita e la morte. Uscì dalla sala operatoria, non me lo fecero vedere. Ma il primario disse che l’operazione era andata bene, che era riuscita con successo. Bene. Il giorno dopo e quello dopo e quello dopo… per undici giorni, feci fuori e dentro dall’ospedale, anche solo per poterlo vedere un’oretta. Era brutto, sciupato, scarno, debilitato… ma io l’amavo.
Fu lì che realizzai che era Amore, quello con la A maiuscola: quando ti fai il tragitto casa – ospedale, ospedale – casa due volte al giorno, quando stare dentro una simile struttura non ti pesa per niente, quando hai davanti il tuo ragazzo pieno di flebo, intubato fino al collo, del colore di un cadavere che non ha nemmeno la forza di salutarti e tu lo vedi bello come il sole, credetemi, quello è Amore. Non è pietà, non è carità, non è misericordia. È Amore. E la forza che trovi solo per non piangere e farti vedere forte davanti a lui, per sorridere sebbene quello che ti è capitato è quanto di più simile a una disgrazia e tu non eri pronta per affrontarlo – del resto, a qualsiasi età, chi lo è? -, bhè non viene da te, ma da qualcosa di più grande. Passarono i mesi e Teo lentamente si riprendeva. Ma doveva fare la chemio. Puah, che parola schifosa! Chemio: si può trovare un nome più odioso ad una simile terapia?! Fatto sta che gliela prescrissero ‘preventiva’, “Perché l’operazione è andata bene, ma alla tua età non si sa mai”. Eh già, chemio paraculo, come la soprannominai io. Nove interminabili mesi, in cui lo avvelenavano ed io dovevo stare a guardare. “È per il tuo bene!”, si sentiva dire. Ma può essere per il mio bene una cosa che mi fa letteralmente vomitare, che mi fa dimagrire, che mi fa diventare secca la pelle e opachi i capelli?! Già, i capelli! Teo soffriva tantissimo all’idea che i suoi folti capelli diventassero spenti. E quando iniziarono a restargli in mano, lì prese una decisione radicale: “Amore, mi radi?”. Rasai al suolo quel territorio di guerra, il luogo dove forse si vedono maggiormente gli effetti della chemio e il mio passaggio non lasciò nulla. Io mi sentivo un po’ come il generale di un esercito e lui divenne un soldato. Rasato a zero, Teo assomigliava ad un vero e proprio marine americano, pronto a combattere la guerra più difficile nella vita di un uomo: quella contro la morte. E io al suo fianco, pronta a non lasciarlo mollare mai, a insultarlo se necessario, un vero e proprio motivatore personale. Il cancro è una malattia assurda: ti conosce dentro perché ti viene da dentro. Covi i rancori, tieni dentro la rabbia e il tuo corpo la trasforma nel male, ne sono convinta. Appena appena vacilli, lui ti frega. Se credi di non farcela, non ce la farai. Per questo, chi sta affianco ad un malato di cancro, ha il compito più difficile e oneroso che esista: quello di salvarlo.
Passò un anno e Teo sembrava stare meglio, riprendersi poco a poco, tornò anche a giocare con la sua squadra di calcio. Ma probabilmente la sua fede e la sua fiducia vacillarono. Perché il male ritornò. Febbraio 2008. Com’è che si dice? Anno bisesto, anno funesto?! Ne ho avuto la conferma: è proprio così. Teo fece la Tac di controllo, normale routine. Gli trovarono due macchie nel fegato. “È da asportare, subito”. Io ero sotto tesi, mi dovevo laureare da lì a due mesi. Ma quando succedono queste cose, la tua vita passa in secondo piano e conta solo quella di chi ami. 11 marzo: Teo era sotto i ferri di nuovo, questa volta per otto infinite ore. Dove non conta quello che pensi, quello che speri, quello che vuoi, ma ti puoi solo affidare al destino e sperare che la ragione non ti abbandoni perché è estremamente difficile non delirare in simili situazioni. Ne uscì vittorioso, anche quella volta. E anche quella volta fu seguita da un ciclo interminabile di chemioterapia.
Non è facile ricominciare a vivere, cadere e rialzarsi ogni singola volta che riprendi in mano la tua vita, credetemi. Qualcuno disse: “Non è importante quante volte sei caduto, ma le volte che hai saputo rialzarti dopo la caduta”. Niente di più vero, ma che fatica! Tutte le volte che ti rialzi, hai paura di poter cadere di nuovo, che qualcosa ti possa strappare il sorriso di nuovo. Io sono caduta innumerevoli volte, ma ho saputo rialzarmi più forte e consapevole ad ogni occasione e sapete chi mi ha dato la forza per farlo? Teo. Debole, sfiancato, emaciato, ha saputo darmi la lezione di vita più importante: muore solo chi non ha nulla per cui combattere, solo chi si lascia morire. Con quei suoi grandi occhi castani, implicitamente mi ha chiesto di non lasciarlo andare, di non lasciarlo morire. Mi ha chiesto di sposarlo. Non c’è stata nessuna proposta in ginocchio, nessun diamante. Solo la sua mano scarna sulla mia in un letto di ospedale, appena uscito dalla sala operatoria e il suo filo di voce: “Non mi lasciare”. E così feci. Lì, insieme, noi rinascemmo a vita nuova. Come individui e come coppia. Da quel momento, la prima volta, non lo lasciai mai più. Insieme a lui affrontai la chemio, lo vidi riacquistare peso e forze man mano che il tempo passava, aspettai insieme a lui ogni singolo esito degli esami di controllo. Il nostro ‘viaggio di nozze’ fu a Sotto il Monte, in provincia di Bergamo, a chiedere la grazia di salvarlo la seconda volta. Insieme, ricominciammo a camminare, a correre, a fare le addominali, a tirare calci ad un pallone… Come fanno le mamme con i propri figli. Come fanno le mogli devote con i propri mariti. Gli stetti accanto nella gioia e nel dolore, nella buona e nella cattiva sorte, in salute e in malattia e lo feci per egoismo, lo ammetto. Per egoismo, direte voi?! A 21 anni è normale che una ragazza stia accanto ad un malato di tumore invece che andare a divertirsi con le amiche? Scelga di stare in casa tutto il giorno al suo fianco invece che andare a fare shopping? E questo sarebbe egoismo?! Sì, è la mia risposta. Perché oggi posso affermare di essere davvero una persona migliore: più forte, più coraggiosa, più determinata, più solare, con una fede più consapevole e una persona al mio fianco, che posso dire con assoluta certezza essere l’uomo della mia vita.
Oggi di anni io ne ho 27 e lui 30. Sono passati sei anni da quel giorno infausto, sei dal giorno del mio matrimonio. È passato quasi un anno da quando Teo si è potuto scrollare di dosso finalmente l’etichetta ‘malato di cancro’, dichiarato dai medici ufficialmente ‘fuori pericolo’. Nel frattempo, ci teniamo impegnati con gli esami di controllo ogni sei mesi, giusto per stare sempre in guardia, quel pungolo che ci serve per non addormentarci sugli allori, ma per cercare ogni singolo giorno di essere il meglio per noi stessi e per chi ci sta affianco. Oggi lavoriamo entrambi come giornalisti, cercando di realizzare i nostri sogni e mettendoci l’anima in qualsiasi cosa facciamo. Non siamo ricchi, non siamo ancora realizzati completamente dal punto di vista professionale, ma siamo innamorati e fortunatissimi, perché ci abbiamo. E tanto basta. Arriverà presto anche il giorno in cui rinnoveremo la promessa che ci siamo fatti sei anni fa davanti a Dio, motore della nostra vita e del nostro Amore. E sarà una grande festa, circondati da tutti coloro che ci hanno amato e che abbiamo imparato a conoscere e ad amare col tempo. Il mio sogno più grande è quello di invecchiare con lui, avere dei figli con lui, perché così sarà. Al diavolo i pronostici o alle statistiche. Me ne frego dei sapienti che pensano di sapere tutto sulle malattie, della medicina e dei dottoroni, che dicono che un malato di tumore potenzialmente lo è per tutta la vita. Fanculo. Io non ho paura, io non ci credo. Perché l’unica medicina, la panacea per tutti i mali, è l’Amore: se non hai quello, allora sei già morto per metà. E io l’ho sperimentato con la mia vita, sulla mia pelle. E sono ancora qui, a ringraziare Dio per ogni singolo giorno che ci ha concesso di vivere insieme, innamorati. Più del primo giorno, ormai dieci anni fa.
Senza parole, e qui c’è solo che da imparare. Vi meritate tutta la felicità del modo!
piango anch’io adesso, ma sono lacrime diverse, di solidarietà femminile: prima lacrime di dolore, poi di gioia per l’epilogo, infine di speranza. Ragazzi siete proprio belli insieme: un vero e proprio baluardo per chi, ogni tanto, smette di credere alla parola amore. Grazie per questa prova pratica che l’amore può tutto, ogni cosa e sopra ogni cosa.
Tu, piccola Franci, sei davvero rock’n’roll….
Siete un esempio… alle volte la testimonianza non è esibizionismo, soprattutto oggi che un sentimento come l’amore viene disperso tra le banalità della ragione, il profitto e il conformismo del cuore! Io non riuscirei ad essere tanto generosa. Sono felice che una mia coetanea abbia vissuto pienamente il sentimento dell’amore: hai ricevuto un grande dono… prova di questo è il fatto che la tua giovane età ti ha permesso di penetrare questo mistero con una competenza che farebbe invidia a qualunque luminare della scienza che si adopera a catalogare l’animo umano e a ritrovarlo quando si smarrisce nei corridoi bui del mondo… un giorno spero di poter avere questo privilegio che molte donne non hanno avuto nell’arco di una vita!
Commossa…
Una delle cose più belle, intense, intelligenti, disperatamente umane e profondamente spirituali che abbia mai letto in vita mia. Non per niente l’unica parte del corpo che il cancro non può intaccare è il cuore.
Grazie a tutte, ragazze! Nessun esibizionismo, ma solo voglia di condividere, perchè spesso abbiamo tabù che non ci permettono di stare meglio. Mi ci voleva questo post, perchè certe ferite non si rimarginano mai del tutto, ma ci servono per ricordarci che siamo vulnerabili!
Vi auguro un amore bellissimo e vi abbraccio tutte!
Grazie!
“il sangue non sarebbe arrivato al cervello”…ma scusa, va bene che non ti piace la matematica, ma qui ci sono anche grossi problemi con la medicina 🙂
Ma al mattino non potresti fare colazione con una tazza di tè, anziché con acido muriatico?
Ciao Hortense:
(1) Usa per favore anche il tuo nome vero…non avere paura 🙂
(2) Puoi rispondere al mio post in modo attinente, o forse anche tu non hai competenze di medicina ? 🙂
(3) Grazie per preoccuparti della mia colazione, attualmente pero’ non bevo acido muriatico ma mangio eggs and bacon 😛
Baci, Filippo
1) Il mio nome è Hortense.
2) Qui hai ragione. Non ho competenze di medicina.
3) Dalla tua colazione, pur non avendo competenze di medicina, deduco che non hai problemi di colesterolo. Fortunato!!
Bacioni, Hortense
(1) Fichissimo come nome
(2) Quindi perche’ ti sei attaccata al mio post “tecnico” ?
(3) Grazia ancora per preoccuparti per la mia colazione. Ma sei proprio sicura di non avere competenze di medicina ? 🙂
1) Grazie.
2) I tuoi commenti (tecnici) sono sempre corrosivi, bruci la poesia contenuta nei post di Francesca (infatti Francesca non ti degna mai di risposta).
3) Non ho competenze mediche, ma ho il complesso della crocerossina (ahimè).
4) E tu sei medico? Ho un debole per i camici bianchi.
(2) Per me qui non stiamo facendo poesia, stiamo raccontando qualcosa di “Strettamente personale”. Ma ovviamente e’ il mio personale parere.
(3) Quindi ancora una volta, sei fuori post 🙂
(4) Io sono dottore, non medico. Ancora una volta, non interessa sapere qui quali sono i tuo “deboli”.
Allora, Bocciata su tutti i fronti??
Promossa sul nome, su quello mi hai dato una risposta ineccepibile. Complimenti.
Grazie. Ora mi ritiro in buon ordine. A presto. Hortense