Martedì mattina. Piove. È primavera, ma pare autunno. “Sì, pronto dottore. Volevo avvisarla che è pronto il materiale da farle avere. Glielo possiamo portare?”. “Sì, vi aspetto per le 12”. “Oggi?”. “Sì, non vi è arrivata la mail?”.
Le 12 son tra poche ore, vado a svegliare Matteo. “Dobbiamo andare in ospedale, ora”. Prepara tutte le autocertificazioni, la mascherina, i guanti… Non usciamo di casa da due mesi, ne avremmo fatto a meno. Per strada c’è un quarto del traffico, si attraversa Milano in mezz’ora, unico risvolto positivo di questa situazione surreale.
Arriviamo al primo ospedale, scendo solo io a recuperare il materiale. Senza ombrello, senza borsa, meno cose ho, meglio è. Ci sono pochissime persone, non ci si guarda negli occhi, tutti concentrati a evitare il nemico, come se potessimo vederlo. Poi anche volendo, non riuscirei: gli occhiali mi si appannano, respiro a fatica. Recupero il materiale, raggiungo Teo in auto, getto il primo paio di guanti. Tolgo la mascherina. Respiro.
Proseguiamo per il secondo ospedale, dove abbiamo la visita. Un posto di blocco, ma non fermano noi. Stavolta deve scendere anche Teo. Ci bardiamo, ma Teo fa fatica a respirare: con la Ffp3 è un inferno, ma è per il suo bene. Dentro ci prendono la temperatura. Non c’è quasi nessuno. In sala d’attesa ci si siede distanziati, poi alla visita io non posso entrare. Vedo gli occhi smarriti di Teo, ma è la prassi.
Attendo. Provo a ingannare l’attesa, guardando il cellulare, ma con i guanti è faticoso. Poi gli occhiali mi si appannano. Passano dieci minuti, quindici. Mezz’ora. Quaranta. Comincio ad avere un mancamento. La mascherina mi irrita il viso. Mi suda la bocca. Non respiro. Non arriva sangue al cervello. Il signore lì vicino mi guarda preoccupato. Scopro che il corridoio creato lì vicino è quello per i pazienti Covid. Quindi passano dietro di me. Ansia. Sudo. Quasi svengo. Mi alzo. Arriva Teo. Possiamo andare.
Esco all’esterno. Pago il parcheggio. Entro in macchina. Mi tolgo guanti e mascherina. Respiro a pieni polmoni. Mi viene da piangere. Sebbene fuori faccia freddo, faccio il viaggio a finestrini abbassati. Arrivo a casa, per le due ore successive ho la testa pesante, mi duole la cervicale. Non sto bene.
Mentre cerco di raccapezzarmi, leggo la posta. “È morto Marco”. Chi? Cosa? Non è possibile. “Teo, Teo!”. Tremo. “È morto Marco”. Chiamo subito Maurizio. “Dicono infarto”. Fulmineo, un attimo ci sei, quello dopo non più.
Non eravamo così intimi, ma abbiamo fatto un buon pezzo di strada insieme: il video di lancio di Fairitales, le riprese in mezzo ai campi con Buzz, la finta pioggia simulata con la canna dell’acqua. E poi FutuRadio, il progetto di videomapping della prima fiaba di Teo, quella della gabbianella. E poi le dirette radio dei nostri mitici 24 ore all’oratorio. Sempre gentile, instancabile, sorridente, disponibile. Se Teo è arrivato a essere quello che è oggi, e anche merito suo. Ma stava bene, ma deve diventare papà a breve… No, non è possibile.
Cerco di mettere la testa nel lavoro. Ecco l’ennesima mail per cercare di chiudere un preventivo che non mi convince, che mi vuole imbrigliare. Non ho le forze per combattere ancora. Non oggi. Io accetto e buonanotte. “No, Franci, tu vali di più di così”, mi dice Teo. Fuori piove. Dentro anche.
Mi metto a guardare il video girato da Marco. Piango. Piange anche Teo. C’è così tanto dentro di lui. Lasciamo così tanto di noi in ciò che creiamo.
Vado a letto, ma non riesco a dormire. Penso a Marco, a sua moglie Laura, a quello che avevano e che avrebbero avuto. A quello che avrebbero fatto ancora, se avessero saputo. Penso a Teo, alla paura che possa succedere anche a noi. Penso al lavoro, al tempo sottratto alla mia famiglia e alla scrittura per finalizzare un progetto che non sarebbe mai andato bene comunque. Sono le 2. Le 4. Le 6. Sveglia.
Faccio uscire le bimbe. Mi preparo la colazione, la faccio in giardino, ho bisogno di respirare. Guardo il cielo, poi sfoglio le foto di Marco su Facebook. Trovo questa di dieci anni fa, al nostro torneo 24 ore. Marco sorride, io sorrido.
Mi siedo al pc, mando la mail. “Salve, grazie, ma rifiuto”. Il continuare a farne una mera questione di prezzo, mi stava facendo perdere di vista la cosa più importante: il mio valore. E il valore del tempo sottratto a chi amo e a ciò che amo fare, ovvero scrivere.
Uno degli obiettivi di questa quarantena, che mi ero prefissata, era di essere una persona nuova, che sa lasciare andare ciò che non la gratifica, che non bada solo ai soldi, ma a ciò che questi soldi dovrebbero sostituire. La vecchia Franci avrebbe detto sì, oggi ci ho messo mezz’ora a premere invio, ma alla fine ce l’ho fatta. Lo dovevo a me stessa.
Nel preciso istante dopo, ho ricominciato a scrivere, di botto. Fuori non pioveva più, c’era il sole. “La vita è un brivido che vola via…”: ho guardato il cielo, ho mandato un bacio.
Senza di te, Marco, non ce l’avrei mai fatta.
Fai buon viaggio, ma non starci troppo lontano.
Ciao, Marco.
Grazie di tutto.
Davvero.
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